“Uno dei più grandi scrittori italiani boicottato dalla cultura di sinistra”

Eugenio Corti“Quando passeggiava fra boschi e torrenti lombardi non si fermava mai, neanche sotto il diluvio. Diceva: siamo al caldo nei piumini e non ci sparano addosso. Avanti”.
Per Eugenio Corti ogni montagna era in discesa; era tornato dalla Russia a piedi, aveva combattuto con i suoi compagni in quell’inverno del 1942 per aprirsi un varco verso casa, verso la Brianza immortale del Cavallo Rosso.
“Immortale perché è fissata nelle pagine per l’eternità, ma quella Brianza devota, quell’Italia devota, non esistono più”.

C’è qualcosa di affascinante e surreale nel parlare del grande scrittore cattolico, del suo lavoro, dei suoi luoghi del cuore in un affollatissimo bar di Milano davanti a Sant’Ambrogio con Paola Scaglione, docente, scrittrice, soprattutto biografa – autrice di Parole scolpite, I giorni di uno scrittore, La trama del vero, L’opera di Eugenio Corti e la Brianza – mentre i camerieri col berretto a righe recano sui vassoi mastelli di caffè e fette di cheesecake che sembrano prue di un incrociatore pesante.
C’è uno stacco enorme tra l’argomento della conversazione e il chiasso delle voci e dei bicchieri nella frenesia che avvicina al Natale.

Ma bastano due risposte, un retroscena, un aneddoto su Corti (morto a 93 anni nel 2014) per vedere un signore gentile col pezzetto bianco sedersi con discrezione al nostro tavolo. Lui.

Paola Scaglione, come si diventa biografa di un gigante della letteratura?
Lui ripeteva che era stata la Provvidenza. Un giorno del 1983 il mio futuro marito comprò Il cavallo rosso appena uscito nella libreria degli Artigianelli, a Monza. L’hanno chiusa otto mesi fa. E se lo portò in ospedale al San Gerardo, dove doveva sottoporsi a un intervento.

E lì cosa accadde?
Don Mario Cazzaniga, cappellano dell’ospedale, passò a trovare i malati, vide il libro sul comodino e disse: ma lo sai che il don Mario di cui si parla in quelle pagine sono io? Devi assolutamente conoscere l’autore. Fu uno dei primi lettori che andavano a incontrarlo. E quando ci fidanzammo portò anche me dopo avermi fatto leggere il libro. Una folgorazione, nacque una lunga amicizia.

Dove lavorava?
Nella sua casa di Besana Brianza, una vecchia fabbrica dell’Ottocento trasformata in abitazione, circondata da un giardino magico tipo quello di Narnia. Lui faceva esperimenti floreali, come Alessandro Manzoni che nella villa di Lecco, al Caleotto, coltivava il caffè. Per i miei figli era un luogo meraviglioso, dove scorrazzare rincorrendo una coniglia che Eugenio chiamava Camilla come l’eroica guerriera dell’Eneide.

E lo studio dove scriveva com’era?
La stanza in cui era nato. Con due finestre, quella a Bordo con vista sulla Grigna e sul san Primo, quella a Ovest sul giardino. Davanti c’è un mandorlo rosa che in primavera regala una fioritura stupenda. Lui diceva: guardandolo penso al dopo, alla gioia indicibile che deve esserci in Dio.

Era metodico o estemporaneo?
Metodico, aveva un senso sacrale del tempo. Si domandava: sto usando bene questo tempo? Ogni giorno dalle 9.30 alle 13.30 e dalle 15 fino a sera sedeva alla scrivania ingombra di carte, dove trovava tutto, davanti a una fila di matite appuntite. Le chiamava: le mie armi. A metà pomeriggio faceva una pausa, d’inverno per il tè e d’estate per il gelato. Scriveva a mano, ricopiava a computer, stampava e correggeva le bozze fino allo sfinimento dei tipografi.

Pignolo il maestro?
Di più. Aveva un amore tenace per i particolari. Raccontava divertito che, quando arrivava lui, alla Tipografia sociale di Monza dove veniva stampato Il cavallo rosso, c’era il fuggi fuggi.

Sul Cavallo rosso aveva avuto ripensamenti?
Mi disse che aveva cambiato una frase nel finale, quando Alma arriva in Paradiso, dopo la correzione di un cardinale che aveva letto una delle prime edizioni del libro. Lui aveva scritto: “Siamo qui in tanti perché non uno di quelli per cui Cristo è morto si perde, non uno”. Il cardinale disse che era teologicamente sbagliato, mancava il libero arbitrio. Allora lui aggiunse: “Se non vuole”.

Quando capì che quello scrittore era un numero uno della letteratura?
Subito. Lessi un centinaio di libri sulla ritirata di Russia per non farmi trovare impreparata. E quando già nel 1984 François Livi, docente della Sorbona, scrisse che Il cavallo rossonera destinato a diventare “un sicuro punto di riferimento nella narrativa del secondo Novecento”, ebbi la ratifica. Ma erano i lettori a confermarlo.

In che senso?
Presentai la prima biografia di Corti al Meeting di Rimini nel 1997. Passeggiare con lui nella fiera era impossibile, la gente lo circondava, lo fermava, si faceva autografare tutto e lo ringraziava dicendo: lei mi ha aiutato a credere e a vivere, grazie al suo libro mi sono convertito.

Eugenio CortiLa casa editrice Ares ha stampato 33 edizioni del Cavallo rosso nonostante l’ostracismo della cultura dominante di sinistra.
Eugenio spiegava la situazione con una frase definitiva: siamo in guerra e il nemico sostiene le opere letterarie che gli servono, non le mie. Ma non ne ha mai fatto un dramma, il suo anticomunismo è stato un problema solo per i suoi detrattori. Nel 1962, dopo la messa in scena a Roma della sua tragedia Processo e morte di Stalin, L’Unità lo aveva definito un corruttore della gioventù. Corti aveva intuito gli scenari nel 1944 mentre risaliva l’Italia nell’esercito regolare.

In che modo?
Da ufficiale aveva giurato fedeltà al re (pur essendo repubblicano) e diceva ai suoi commilitoni: quello che facciamo non ci sarà riconosciuto, saranno i partigiani rossi a prendere in mano la storia. Ma era sereno, guardava la realtà con gli occhi dell’eterno.

I suoi capolavori non hanno mai trovato un editore mainstream.
Per lui i compromessi, i saluti e le mode contavano zero. Contava solo la verità. Ricordava: la Madonna mi ha salvato la vita in Russia, non mi vendo. Mursia voleva pubblicare Gli ultimi soldati del re e un dirigente gli disse: le chiedo solo due cose, la prima è di togliere la dedica alla Madonna per non urtare la sensibilità dei lettori laici. E la seconda…

E la seconda?
Lo interruppe: la seconda non mi interessa. Ritirò il dattiloscritto e se ne andò. Era l’ambiente dell’omnia munda mundis. Tutto è puro per i puri.

Cosa le raccontò del Natale di guerra del 1942, a 40 sottozero con i sovietici dappertutto?
Il 24 dicembre era nella vallata di Arbusov, ribattezzata dai soldati italiani la Valle della morte, e si trascinava nella fame e nel gelo con i 30.000 commilitoni accerchiati nella sacca del Don. Non era sicuro quale fosse il giorno di Natale; per tre gironi di filata avuto il dubbio che fosse quello in cui si trovava. Per fortuna aveva qualcosa a cui aggrapparsi.

Cosa?
Ricordo che mi raccontava: “Sono un paolotto, come si dice in Brianza dei cattolici praticanti, e pregavo spesso. In quella vigilia mi affidai alla Madonna, consegnandole ciò che mi restava da vivere. Le feci la solenne promessa che se fossi uscito da quell’inferno bianco mi sarei impegnato a spendere l’esistenza per quel Regno di amore fra gli uomini a cui si riferisce il Padre nostro.

Com’era il Natale in casa Corti?
Era una gran festa di famiglia, con tutti i parenti e un equivoco divertente: la madre preparava sempre il pesce che piaceva al padre di Eugenio. A lui invece non piaceva, ma non si lamentava. Diceva: lo mangiavo con poco entusiasmo. Un incidente minore nella bellezza di quella festa. Per fortuna poi c’era sempre il panettone.

Quale fu il regalo più apprezzato da bambino?
Il primo che ricordava fu un cavallo a dondolo, ci giocava con il fratello Achille. Il più gradito fu una pecora che ricevette a 13 anni, da far pascolare nel prato di casa. Negli ultimi anni era infastidito dalla deriva consumistica. Riteneva che anche questa festività fosse vissuta in modo pagano.

Un’involuzione senza speranza?
Questo mai. Secondo Corti la speranza è la presenza di Dio nella storia. Ne era certo e aggiungeva: la speranza non verrà mai meno.

Sua moglie Vanda lo ha accompagnato con discrezione per una vita.
Una donna bellissima, il suo ideale estetico. Di Vanda apprezzava lo stile, la compostezza linguistica. E per lui era indispensabile, pratica, presente. Lo ha liberato dagli obblighi pratici della casa.

All’inizio lei parlava delle vostre passeggiate. Amava camminare?
Moltissimo. Una volta la settimana andava in montagna, minimo tre ore la domenica. Le mete preferite erano le prelati lombarde, Montevecchia, la valle del Curone, la Galbusera bianca e nera. Si andava tutti insieme, a volte con i suoi fratelli. Aveva passione per gli uccelli, li riconosceva dal canto e si fermava incantato a sentire gli usignoli. Da giovane era stato cacciatore, ma quando tornò dalla Russia disse: “Non sparerò più un colpo se non per difendere la casa e gli affetti”.

Qual è stata la pagina di cui è andato orgoglioso?
Un giorno, proprio durante una di queste passeggiate, mi disse che aveva scritto il più bel brano della sua vita, quello sulle farfalle nel romanzo Gli ultimi soldati del re. Farfalle appoggiate alla trincea, dai colori stupendi, che non si accorgono di vivere né di morire. E ripeteva: una farfalla basterebbe a dimostrare l’esistenza di Dio.

Discutevate mai fra voi?
Una volta gli chiesi di tenere a battesimo mia figlia Lucia e rimasi stupita davanti alla sua perplessità: Mi spiegò che un padrino ha il compito di aiutare e sostenere il figlioccio quando è travolto dai primi dubbi della vita, dai 15 ai 16 anni. “Io allora non ci sarò più”. Gli risposi: ci saranno i tuoi libri. Non ci aveva pensato: accettò. Comunque è morto due settimane prima che Lucia compisse 17 anno… Non credo sia un caso.

Non ha avuto figli, ne avete mai parlato?
Rivelò il motivo una sera a mio marito e me al termine di una vacanza a Cassina Valassina. Ricordo una chiacchierata sotto le stelle e lui che ci ringraziava: “Mi avete fatto capire la fatica dell’essere genitori”. Poi aggiunse: “Dostoevskij diceva che due terzi dell’esperienza di un uomo derivano dalla paternità. Io non l’ho avuta. E so che se avessi avuto una famiglia non avrei potuto permettermi di scrivere”. Eppure pensi che destino…

Quale destino?
Moltissimi giovani negli anni gli hanno scritto lettere stupende nelle quali dicevano di percepirlo come un padre.

Poi un giorno arrivò la fine.
L’ultima volta che l’ho visto non stava male. Avevo anche fatto una gaffe portandogli una torta al cioccolato di cui era golosissimo e che aveva apprezzato molto, ma non avrebbe dovuto mangiarla. Aveva un impegno che ripeteva a sé stesso: affrontare la morte da soldato.

Cosa ricorda di quell’ultima conversazione?
Ascoltò con attenzione i miei progetti di ricerca e mi incoraggiò a proseguire nel lavoro di studio sulla sua opera e sul suo archivio. Una volta mi aveva confidato che lo stava sistemando perché “dopo” non avrei dovuto trovarlo in disordine.

Le sue ultime parole?
Sussurrò: siamo come le foglie. Io replicai: l’importante è l’albero. Lui mi fissò con uno sguardo intensissimo e disse semplicemente: grazie.

(a cura di Giorgio Gandola, 22/12/18, La Verità)